Un frutto costava 900 lire

01.05.2021

Erano i primi anni ottanta. Non li avevo mai visti. Erano belli allineati in una cassettina esposti all'esterno di un negozio di via Dante a Sondrio. Un colore verde scuro, una leggera pelosità, una forma strana come strano era il prezzo: 900 lire l'uno. Frutti brutti, ma quel prezzo così alto mi incuriosì. In quegli anni un kg di pane costava 850 lire, un litro di benzina 850, un caffè 250, il quotidiano 330.

Ogni frutto pesava meno di 100 grammi per un prezzo al chilo superiore a 10.000 lire. Un' esagerazione. Ma la curiosità era tanta. Così entrai nel negozio ed acquistai un frutto. Il negoziante me lo incartò delicatamente e mi disse che andava tagliato a metà e poi consumato scavandolo con un cucchiaino. E cominciò a raccontarmi i pregi, la ricchezza di vitamine C, la presenza dell'acido folico e di tanti altri sali minerali. Utilissimo anche per regolare l'intestino, contro la stitichezza. Altro che il Rim (classico regolatore dell'intestino che si vendeva in farmacia in quegli anni,).

Informazioni precise, interessanti che poi trovarono conferma sulle riviste specializzate che raccontavano di una pianta esotica, nome scientifico Actinidia Chinensi, originaria della Cina, dove cresceva spontaneamente nelle valli del fiume Azzurro, il fiume più lungo dell'Asia. Una pianta rampicante con foglie cuoriformi che poteva raggiungere anche i 10 metri di altezza. Una pianta dioica, con fiori maschili e femminili su piante diverse.

Dalla Cina fu portata in Nuova Zelanda all'inizio del secolo scorso e da lì si impose in tutto il mondo. Nei primi anni settanta arrivò anche in Italia dove si diffuse principalmente in Veneto, Romagna, Lazio, Piemonte e in Lombardia.

Informazioni precise che confermavano le notizie del negoziante di via Dante e che aggiungevano altro: il rafforzamento del sistema immunitario, la protezione dei vasi sanguigni, la presenza di potassio, rame, ferro, antiossidanti e luteina che protegge gli occhi e diminuisce la pressione sanguigna. Un frutto quasi miracoloso, anche ipocalorico: 60 calorie per 100 grammi di frutto.

Appena a casa divisi il frutto in due e notai subito quello strano contrasto di colori, diverse tonalità di verde della polpa, molti semini piccoli e neri presenti simmetricamente intorno ad una ellisse bianca. Metà a me e metà a mia moglie, un sorriso e qualche battuta per quel disegno strano che appariva dopo il taglio e ricordava qualche cosa di proibito... e poi l'assaggio. Sapore acidulo, ma rinfrescante, gustoso, dolciastro, decisamente piacevole.

In quegli anni il consumo di kiwi in Italia si diffuse velocemente e così anche la produzione. Forse per i pregi, forse per il desiderio di novità o per quel colore verde smeraldo, entrò anche nelle cucine dei ristoranti, come frutta nelle prime colazioni, per la preparazione di macedonie e frullati, per la decorazione di dolci.

L'espansione produttiva durò diversi anni, incentivata anche dalla buona remunerazione. Nel 2006 l'Italia diventò il secondo paese produttore di kiwi del mondo, dopo la Cina, battendo anche la Nuova Zelanda fino ad allora seconda produttrice mondiale di kiwi. ((Italia batte Nuova Zelanda 422.000 tonnellate a 318.000 tonnellate).

Una continua crescita che portò nel 2015 la produzione nazionale a 562.000 tonnellate, per poi iniziare una diminuzione derivante da un abbassamento di prezzi, dalla stanchezza dei terreni e quindi una produzione per ettaro più bassa, ma soprattutto da una virosi che distruggeva le piante particolarmente nei terreni più umidi, negli impianti con sistema di irrigazione a scorrimento. Unica cura era l'estirpazione.

Nel 2019 la produzione italiana sfiora appena le 370.000 tonnellate derivanti da quasi 25.000 ettari di coltivazioni. Inizia in quegli anni la diversificazione delle cultivar con l'introduzione di quelle a pasta gialla, preferite dai consumatori per la buccia glabra, per la maggior dolcezza, per la minor asprezza e maggior contenuto di vitamina C.

Nel 2019 più del 20% della produzione di kiwi italiana è a pasta gialla.

Va anche ricordato che l'Italia è oggi un grande esportatore di Kiwi, circa 300.000 tonnellate, il 75% della produzione italiana. viene esportata in Germania, Spagna, Francia, Stati Uniti, Polonia, e in Cina (???)

Dalla stessa Cina ne ritornano in grande quantità in stagioni diverse così anche dalla Nuova Zelanda e dal Cile. (50.000 tonnellate, circa il 33% dei nostri consumi). Lo potremmo definire un paradosso, ma in un mercato globale, con la maturazione in due emisferi diversi del frutto, con i consumatori che cercano i prodotti frutticoli anche fuori stagione, è del tutto normale vedere nei negozi i kiwi provenienti dalla Nuova Zelanda ad un prezzo anche medio/alto nel periodo estivo. Sta al consumatore scegliere, sta al consumatore imparare a consumare i prodotti stagionali, a km zero. Sta al consumatore scegliere i frutti, evitando magari quelli eccessivamente grossi, che generalmente sono prodotti con l'ausilio di ormoni. C'è veramente la necessità di acquistare il kiwi nel periodo estivo quando i nostri mercati e negozi sono pieni di frutta fresca stagionale ricca di colori, vitamine e sali minerali perché maturata sulla pianta? Ma questa è un'altra storia.

E la provincia di Sondrio?

Non so se quel primo frutto acquistato a Sondrio a caro prezzo provenisse da coltivazioni locali, ma ricordo che in quei primi anni ottanta anche in Valtellina, grazie a contributi della Regione Lombardia, si iniziarono le prime piantumazioni di Kiwi specialmente nella media valle, Ponte, Teglio, Albosaggia, Poggiridenti, Tirano.

Si diceva che era una pianta facile da coltivare, che si adattava molto bene ai nostri terreni, che richiedeva poche cure, che non richiedeva interventi fitosanitari, che le escursioni termiche ne miglioravano le caratteristiche, soprattutto il tenore zuccherino, poche pratiche colturali, nessun trattamento, buona conservabilità dei frutti e soprattutto buona remunerazione.

Lo sviluppo del kiwi in Valtellina seguì più o meno la curva delle altre zone d'Italia, con un calo nei primi anni del 2010, dovuto principalmente ad una diminuzione delle produzioni per la stanchezza del terreno, per il calo del prezzo, mentre poco significativa la moria di piante per la batteriosi: il terreno asciutto della Valtellina sembra sia infatti una caratteristica importante per il non diffondersi della malattia.

Oggi, in provincia, abbiamo circa 20 ettari di coltivazioni con una produzione di circa 400 tonnellate, ma nonostante la produzione sia diminuita il prodotto è sempre molto richiesto per la qualità, per la dolcezza, ma soprattutto per la presenza di aziende che hanno deciso di produrre biologicamente.

Una coltura che forse meriterebbe una maggior diffusione, con alcune scelte agronomiche particolari quali la sostituzione delle vecchie piante, magari con una minima rotazione dei terreni per eliminare il problema della stanchezza, con l'introduzione di nuove cultivar, privilegiando quelle a pasta gialle, stagionalmente più precoce, con una politica di marketing che promuova un territorio di produzione dove il clima particolare di montagna arricchisce il valore nutritivo dei frutti, dove i kiwi crescono naturali, senza utilizzazione di ormoni.

Il kiwi, di montagna, di Valtellina potrebbe ridiventare una nuova opportunità per i nostri agricoltori. Non possiamo dimenticare che oggi il consumo di kiwi in Italia è di 3 kg all'anno per abitante, un valore basso se rapportato ai 15 kg di arance o agli 11 kg delle mele. Un valore che con una adeguata politica di marketing potrebbe aumentare, magri partendo dall'utilizzazione del frutto nei nostri bar e ristoranti ... perché il kiwi di Valtellina è sicuramente diverso da quello che importiamo dalla Cina o dalla Nuova Zelanda.

Ps: un doveroso ringraziamento a Daniele Franchetti, produttore di kiwi biologico, per le sue chiare informazioni riguardanti la coltivazione dei kiwi.